Incontri in viaggio: una notte a Trafalgar
· 18 min · #travels
Venerdì, 6 Marzo 2020.
In Italia il covid era già entrato, senza bussare. A Londra, dove mi trovavo, il vento portava notizie di
un'epidemia lontana nel continente ma l'aria che si respirava era ancora tranquilla — quasi sdegnosa nei confronti
di tale crisi: si prendeva la metro e si girava per strade forse ancor più affollate del solito, se possibile per
una Londra di bel tempo.
Mi trovavo lì con mia sorella per passare un weekend tranquillo in cui lei festeggiava la sua laurea; io ne
approfittai per accodarmi e garantirmi una mini-vacanza.
La sera del venerdì ero solo
ero solo per gran parte del viaggio, a pensarci. non per mia scelta (strano) ma perché lei aveva difficoltà
a camminare per un dolore al piede? ginocchio? e quindi la sera preferiva riposare e non affaticare la gamba. il
sabato invece andò a teatro quindi, esclusa la mattinata, pure girovagai da solo tutto il giorno.
non che mi lamenti di tutto questo, anzi
La sera del venerdì ero solo e i miei passi mi portarono a Trafalgar Square.
L'emigrato
Giuro che è importante per il resto della storia: l'estate precedente mi trovai in quella stessa piazza e
mi arrampicai su uno dei leoni ai piedi della colonna di Nelson per farmi scattare una fotografia.
Trovandomi ora da solo avevo voglia di ricreare quella "folle" acrobazia ai limiti della legalità: mi avvicinai
alla colonna e pensai "perché accontentarsi di rifare, quando posso fare di meglio?". Decisi così di
arrampicarmi ancora più in alto, sui gradoni della colonna stessa.
Tutt'ora non so se fosse legale o se meritavo una strigliata da parte dei poliziotti coi cappelli buffi ma comunque
non ero l'unico a farlo: scoprii, arrivato in cima (un po' tardi forse, ho scarsa percezione)
che poco più in là sull'ultimo gradone dove ora stavo sistemandomi c'era un altro ragazzo.
Avrà avuto poco meno di trent'anni, ed era italiano! Parlava italiano a telefono con qualche ragazza, forse
proprio la sua ragazza
non so come faccio a sapere si trattasse di una ragazza, forse si sentiva la voce femminile dall'altoparlante? forse dal tono che usava lui? boh. forse è un dettaglio che ho inventato
Ad ogni modo, seduti sui gradoni della colonna di Nelson a Trafalgar Square (che nostalgia!) c'erano un ragazzo
italiano che parlava a telefono e un ragazzino che moriva dalla voglia di far capire al primo che anche lui era
italiano — una notizia che avrebbe provocato un'esplosione di gioia indimenticabile.
Ero io. Ero io il ragazzino. È mio l'affetto incondizionato che provo per un qualsiasi connazionale "incontrato"
oltralpe.
Passarono un paio di minuti in cui io, mentre l'altro parlava, guardavo il traffico muoversi lungo e intorno al lato Sud della piazza. Era inverno ed era sera, il cielo quindi già scuro da un po', e annuvolato, ma la scena fin troppo illuminata dai semafori
in venti metri quadri di strada secondo me stavano più di cento semafori
e dai fanali dei pullman rossi e dei tassì neri (occasionalmente passava anche qualche motorino).
Distratto da questa performance cittadina ben coreografata mi sfuggì l'attimo giusto per dichiarare la mia
nazionalità quando il ragazzo chiuse la telefonata e saltò giù, incamminandosi verso chissà quale vita.
Pazienza.
L'aspirante fotografo
Pochi minuti dopo, il posto vacante venne occupato da un altro ragazzo, di età anche simile (forse) ma origini
decisamente diverse.
Lui rimase in piedi, un gradino più in basso di me, e lì dove fino a poco prima c'era il culo di un italiano,
ora v'era poggiata una macchina fotografica su un treppiede minuscolo, puntata sulla strada.
Soddisfatto del suo setup, il ragazzo si guardò intorno e notò il mio cellulare appoggiato contro la colonna,
con la fotocamera puntata sulla strada.
Sorrise, lo indicò e mi chiese, in inglese:
«Anche tu qui a fare foto?»
«Più o meno, è un time-lapse.»
«Ah, figo! È quello che sto facendo anche io.»
Si guardò intorno per farsi un'idea di cosa avrebbe catturato il mio telefono: scie luminose bianche e rosse lungo le corsie stradali, e poco più.
Mi chiese se avessi voglia di dare uno sguardo ad alcune foto che aveva scattato, risposi di sì e ci trovammo
di fronte ad un problema: come avvicinarsi senza ostruire la vista al mio cellulare? Avrei dovuto scendere da lì
e arrampicarmi di nuovo, dal lato opposto della statua.
Fui più furbo: mi alzai in piedi e scavalcai il cellulare come fosse una pozzanghera, attento a mantenere le
gambe ben alte. Il ragazzo, sorpreso, rise e si complimentò con me.
Ci stringemmo la mano e ci presentammo, non ricordo il nome ma era di origini indiane, mi chiese se fossi italiano
e gli spiegai che ero lì in vacanza.
Dalla tasca cacciò il suo di cellulare, iPhone di ultima generazione, e mi mostrò il suo profilo instagram.
Erano tutte foto belle, di pullman, cabine telefoniche, palazzi e tassì; foto di Londra, insomma. Forse troppo
ritoccate per i miei gusti, però.
Rimpiango ancora il non avergli chiesto quale fosse il suo nome utente per poter seguire la pagina, gli avrebbe
fatto sicuro piacere, e io avrei avuto qualcosa per ricordarmi di lui; non so perché lì, sul momento, non mi venne
in mente.
Pazienza.
La ragazza con lo zaino
Inserii il dito nella piccola fessura di spazio rimasta tra la parete della colonna e lo schermo del cellulare
e con precisione chirurgica premetti il tasto dell'otturatore per fermare la cattura, attento a non far tremare
il dispositivo.
Sollevai il telefono, aprii la galleria, cliccai sull'ultimo elemento e... orrendo. Cinque minuti sprecati! Le
scie luminose ballavano troppo; sembrava un elettrocardiogramma, quella foto.
Subito condivisi la finta frustrazione con il mio compagno e lui mi rispose con tono altrettanto scherzoso
"Good shots are lucky shots!"
a me questa, comunque, non sembra una frase scherzosa ma una lezione importante impartita da un grande fotografo. forse si trattava proprio di questo, o forse non ne capisco nulla io. chissà.
Salutai il fotografo, gli augurai fortuna e scesi dalla mia postazione.
Mi incamminai verso il lato Nord della piazza, cercando i miei passi di prima con fare lento, di chi non sa dove
vuole andare.
Pensavo a quanto fosse strano che le luci del museo fossero ancora accese a quell'ora. Pensavo a quanto fosse buia
Londra di notte, le luci dei lampioni molto fioche e distanti, i palazzi... spenti, e quelle insegne al neon —
anche al centro, sulle strade più camminate — non sembravano emanare abbastanza luce. Trafalgar Square,
una piazza così grande e così vuota, e così buia.
Pensavo a questo, a luci e ombre di Londra quando notai la figura di una ragazza con un top nero e pantaloni cargo
verde militare che pure stava attraversando quello spazio enorme, da Est a Ovest però. Sulle spalle aveva uno zainetto nero.
Con anche i capelli neri, molto corti, mi ricordava una mia amica — ma non poteva certo essere lei, no? Questa curiosa
somiglianza ed il suo passo deciso, di chi sa dove vuole andare, — o forse solo la sua bellezza — le diedero
fascino e la resero intrigante ai miei occhi.
Entrò nel museo, la National Gallery. La seguii, ancora più stregato.
Ci misi un po' ad arrivare, la piazza era bella grande — e poi non avevo certo intenzione di correrle dietro,
ero solo curioso. All'entrata mi fermai a leggere il cartello di benvenuto: il museo aperto al pubblico tutti i
giorni fino alle sei — il venerdì fino alle nove di sera.
Solo il venerdì.
Entrai.
E silenzio. Era vuoto, il museo.
Mi dimenticai subito della ragazza, non avrei comunque avuto modo di trovarla: troppe sale e troppo vantaggio
su di me.
Pazienza.
Le tre guide
Mi lasciai invece prendere dalla quiete del posto.
Chissà: il venerdì sera i londinesi avranno altro a cui pensare, tra pub e locali, e forse anche i turisti hanno
piani diversi per le loro gite.
Nel museo non entrava nessuno. E non usciva nessuno. Anche la sicurezza sembrava
aver lasciato i propri posti, anche le signore con camicia bianca e maglioncino senza maniche, con la targhetta
col nome spillata sul petto, e la sedia nell'angolo della sala per riposarsi durante il turno, anche loro non erano
da trovarsi.
Veniva quasi voglia di mettersi a urlare "Helloo?! C'è nessuno!?"
Decisi subito il da farsi:
mi sentivo un ladro — o meglio, un concorrente di uno show televisivo che deve correre nel negozio per prendere più cose possibili da portare a casa gratis, entro 30 secondi. era così surreale quel vuoto!
prima tappa ai Girasoli di Van Gogh per potermeli gustare senza la calca di
gente che li ammira e scatta fotografie. Li trovai subito, ricordavo fossero vicini all'entrata.
Mi resi subito conto che forse, senza la calca, erano un po' inutili. Io stesso mi sentivo inutile a stare lì,
in fondo non mi piaceva quel quadro; ero andato ad ammirarlo solo per avere la soddisfazione di poter dire
"ho visto un Van Gogh da vicino senza confusione, solo io e il quadro".
Cambiai approccio e andai alla ricerca di qualcosa che potesse davvero interessarmi: i romantici.
Girai tra quelle sale solo, meravigliato, incantato dall'enormità e ricchezza del palazzo. Solo il rumore
dei miei passi — e pure quelli erano molto silenziosi — e nulla più si sentiva.
Trovai con non poca difficoltà la sala che volevo: la sala con le opere di Turner.
Mi piace lo stile di Turner, che ci posso fare? La questione non è questa però: la questione è che in quella
sala c'erano altre persone.
C'era un ragazzo, alto e magro, i capelli corti e scuri, ben pettinati. C'era una ragazza, bassa e robusta, i
capelli biondi e mossi. Lui aveva una borsa da uomo che gli pendeva dalla spalla, lei uno zaino
colorato. Entrambi portavano gli occhiali. La ragazza reggeva in mano un raccoglitore e dei fogli sfusi. Avranno
avuto venticinque anni loro, un po' meno del fotografo e l'emigrato (la ragazza che ho seguito aveva la mia età).
Erano in piedi, quei due, dietro l'angolo di una delle porte di accesso alla sala.
Passato lo stupore, feci finta di nulla e mi misi ad osservare alcuni quadri in silenzio, avvolto dalla quiete
del luogo.
Non era un silenzio austero, da cattedrale, bensì una calma accogliente, contenta di sè: come di una nonna
affaticata da un'intera giornata spesa a badare ai nipoti chiassosi e che, andati via, può finalmente sedersi a
riposare la schiena e le orecchie, con la sola compagnia del nipote preferito, quello più tranquillo.
Senza alcuna fretta osservai tutti i quadri di Turner. Finiti quelli passai a Constable e, avendo così fatto il giro della sala, mi trovai vicino ai due ragazzi; erano ancora lì, ancora in piedi, ancora in silenzio.
qualche parola l'avevano pure scambiata nel frattempo, ma sempre sotto voce, forse per non disturbare me
il museo dormiente
Ero troppo curioso di sapere chi fossero e cosa facessero lì fermi, senza guardare alcun dipinto.
La ragazza bionda alzò il polso per controllare l'ora e, contemporaneamente, dall'estremità di un corridoio
comicamente lungo — quello vicino alla porta dove stavano fermi i due — si sentì arrivare qualcuno correndo.
I due si affacciarono. Io mi affacciai.
Era un'altra ragazza. Arrivò nella sala ansimando e chiedendo scusa per il ritardo.
e uno dei misteri è risolto, pensai.
Questa nuova arrivata era alta e snella, i capelli scuri e mossi ma lunghi, quasi ricci. Come il ragazzo portava
una borsa a tracolla. Portava un jeans scuro non troppo stretto che metteva in risalto la lunghezza delle gambe.
Era una bella ragazza, inutile girarci intorno.
Senza perdere tempo, la bionda sfilò dal collo un cronometro — mi accorsi solo allora di quell'oggetto e, più
importante ancora, dei badge che portavano al collo i due ragazzi! La terza recuperò subito il suo dalla tasca e
lo indossò con poca grazia tra la sciarpa e la bretella della borsa.
Il cronometro finì nelle mani del ragazzo, e l'ultima arrivata, ricevuto il Via segnato dal Tick del pulsante,
iniziò a descrivere il quadro più vicino a loro.
Erano guide, ecco svelato anche il secondo mistero! Cioè, non proprio guide... stavano studiando per diventarlo
e sfruttavano l'assenza di folla del venerdì sera per esercitarsi.
Chissà da quanto tempo andava avanti la cosa, se si vedevano solo il venerdì, da quanto tempo stavano aspettando
che arrivasse lei, se fossero amici o un gruppo forzato dall'organizzazione, come si chiamassero, se lei avesse
un fidanzato
e sempre lì vado a finire... ma si sa, il mondo va avanti una cotta alla volta
Io mi ponevo queste domande mentre lei continuava a parlare di quel quadro. Quale quadro? Non ricordo. Ricordo
però che io erano ormai diversi minuti che fingevo di osservarne un altro: era un campo coperto dalla neve,
tutto molto bianco e azzurrino e saltavano agli occhi le staccionate e i tronchi spogli, neri.
Quando la ragazza terminò il discorso passarono al quadro successivo e toccò all'altra, quella bionda, di
descrivere l'opera. Il cronometro era sempre nelle mani del ragazzo, anche quando poi toccò a lui presentare!
Addirittura, i due che ascoltavano poi ponevano anche delle domande, a simulare il pubblico, e ogni tanto sentivo
il fruscio nervoso di fogli e pagine seguito dalla lettura ad alta voce di qualche data o dettaglio dimenticato.
quindi: il ragazzo controllava i tempi, la bionda consultava il materiale, e la ragazza? niente, era la più simpatica. varrà qualcosa pure questo, no?
Arrivarono all'opera che stavo "osservando" io. Mi feci da parte. Poi mi riavvicinai; avevo la fortuna di poterci
capire qualcosa, perché perdere quell'occasione?
Divenni il loro pubblico per quel dipinto e per i successivi.
Erano molto seri e concentrati quindi, soprattutto all'inizio, non ci scambiammo più di qualche occhiata furtiva.
Passato un po' di tempo, giusto un paio di quadri, realizzarono quanto fosse seria la mia curiosità e mi accolsero
nel loro "gruppo" rivolgendosi anche a me mentre spiegavano, e indicandomi con dita riverenti sulla tela i dettagli
che menzionavano.
Completammo così il giro della sala. L'ultima opera di cui parlare era ancora di Constable, forse la sua più
famosa: The hay wain (il carro da fieno).
Fu qui che aprii finalmente bocca e dissi, quando la ragazza ebbe finito la sua presentazione, qualcosa sulle
nuvole, sul fatto che fossero sempre ben definite (a differenza di Turner) ma che era anche peccato avere quella
macchia scura al centro della composizione.
Feci centro. La ragazza mi guardò compiaciuta, il ragazzo sorrise e la bionda abbassò i fogli ai fianchi
dicendo «Beh, toccava a me fare questa domanda ma mi hai battuto sul tempo!».
«È la parte più importante del quadro,» spiegò l'altra, «c'è sempre qualcuno che chiede
delle nuvole».
Iniziò così a dirmi — a me, parlava a me! indicava il quadro ma non si girava mai verso l'opera!
e io non riuscivo a distogliere il mio sguardo dal suo — iniziò a raccontarmi come Constable fosse un artista
all'inizio non apprezzato dai contemporanei per la sua volontà di rappresentare la natura così come si presentava
ai suoi occhi (a differenza di Turner); e le nuvole, così come il verde acceso della campagna erano proprio i
tratti distintivi di questa sua sovversione dei canoni.
E parlò ancora un po', spiegò altro sull'opera, controllarono date e luoghi, e ricordò aneddoti ma non prestai
molta attenzione; avevo due pensieri in testa: "sta parlando di un quadro: dovrei osservarlo", e,
"voglio sapere di lei"
Poi il discorso terminò. Il silenzio fu giusto per un attimo, lei chiese «So, what do you think?»
Non riporterò il resto della conversazione, non dirò com'è finita la serata.
Non mi dimenticherò di loro.